04 Nov 2024

Il ruolo dei volontari AVO

Il ruolo dei volontari AVO

Prendersi cura di sé nei contesti delle professioni di aiuto

Fare il volontario non è una scelta indifferente e assolutamente occasionale, senza un’anima ed un movente. C’è nel profondo di ogni volontario una motivazione ed una ragione che conferisce a questa scelta un significato che va oltre ogni apparenza. Il volontariato in ospedale ha poi una sua specificità che lo caratterizza in maniera assolutamente singolare, sia che l’ispirazione a questa scelta abbia un carattere religioso, evangelico di amore verso il prossimo, sia che il movente sia squisitamente umanitario ed inserito nella logica di fare disinteressatamente del bene agli altri.

Questa profondità deve vincolare il volontario ad approfondire il senso della sua scelta, a carpire le dinamiche nascoste che la sottendono, ad assegnare ad essa una consapevolezza la più ampia possibile, oltre naturalmente ad una competenza che l’attività volontaria per sé stessa richiede.

La partenza è qui, in questo sentirsi analfabeti – come diceva Don Ciotti – e bisognevoli di approfondimento e di assunzione di responsabilità. Sentirsi analfabeti significa fare un atto di umiltà ed accrescere il bisogno di sapere, di incontrarsi, di discutere, di leggere bene i segni del nostro tempo con i suoi cambiamenti e le sue trasformazioni. Leggere non la cronaca come ci hanno abituato i media ma le storie, quelle delle persone che incontriamo e che devono ricondurre necessariamente il nostro Io ad un Noi, senza il quale non c’è storia e non c’è solidarietà. Anche ogni malato ha la sua storia, ed è portatore di una sofferenza che ha bisogno di essere annunciata e condivisa.

Perché la scelta di essere un volontario? Perché un certo giorno è maturato nell’animo questo inaspettato impulso verso gli altri? Ma non gli altri in senso generico, no, gli altri nel senso degli ultimi, di coloro che si trovano nella condizione di una spesso drammatica vulnerabilità e fragilità. Gli ultimi sono anche i poveri, i disoccupati, le prostitute, i tossicodipendenti, ma ancora più ultimi sono quelli che pur avendo materialmente beni ed a volte ricchezze sono ricacciati in una sofferenza fisica o psichica che li rende poveri, soli, privi a volte di una semplice aspettativa di vita. Interagire con questo tipo di ultimi richiede sì competenza, ma richiede anche un di più, una forza interiore che sappia modulare la condivisione, l’empatia, l’amore in un giusto sentimento disinteressato e privo di ogni incrostazione egoistica e narcisistica.

Per questo sono giustificati gli interrogativi sulle motivazioni di questa volontaria scelta. Bisogna stare attenti perché esiste una risposta superficiale che è facile individuare. Un evento, una ispirazione religiosa, una ricerca di come impiegare il proprio tempo ritrovato. Tutte risposte plausibili ma non esaustive. Bisogna andare più in profondità.

Un giorno, durante la visita, una mia paziente in maniera assolutamente spontanea si è lasciata uscire dalla bocca questa frase: Non si vive per l’altro ma dell’altro. L’altro non è un semplice interlocutore per noi, non è un oggetto delle nostre premure e delle nostre attenzioni. L’altro è il nostro cibo senza il quale non potremmo vivere. Vivere dell’altro vuol dire che l’altro è una nostra necessità vitale. Si tratta quindi di un bisogno primario che implica che se non c’è l’altro non esistiamo noi. Questa è una prima risposta.

Ricordiamo la nostra esperienza pre-nascita. In quella condizione di simbiosi, nella quale noi ci trovavamo, se non fosse esistito il contenitore-madre non saremmo potuti certamente esistere noi. È stata proprio quella esperienza a maturare in noi questo bisogno profondo dell’altro. Nell’esperienza depressiva, ad esempio, l’alterità viene meno e gradualmente si riducono fino a scomparire tutti gli interessi vitali. Si resta soli e senza alcuna motivazione per vivere, ed è la morte dentro, prima che la morte fisica. Se noi viviamo dell’altro dobbiamo prima di tutto fare attenzione a non fagocitarlo, a non considerarlo un nostro alimento da consumare fino in fondo, spogliandolo della sua identità. Sarebbe questo un ingannevole progetto psicotico che distruggerebbe entrambi.

Noi viviamo dell’altro come lui vive di noi: è una condizione di reciprocità che rende l’incontro un’impareggiabile esperienza del vivere insieme. Se l’altro è caduto in una condizione esistenziale di fragilità e di solitudine non ha certamente perso la sua potenzialità a disporre di una sua ricchezza dialogica. Attenzione, nell’incontro con il malato non si dà soltanto ma si riceve. Questa situazione deve forzatamente contrastare la fantasia del dare senza ricevere e dunque quel senso profondo di onnipotenza che emerge spesso con tanta facilità dentro il nostro mondo psichico ed è appunto correlata al bisogno dell’altro.

Una motivazione, dunque, che diviene azione e che si appalesa nei comportamenti e nella stessa attività del volontario. Ma bisogna fare attenzione a che non divenga motivo di appagamento esclusivo di esigenze ed interessi personali.

Un altro aspetto che può rientrare tra le motivazioni egoistiche è il riconoscimento sociale di cui gode il volontario. È plausibile pensare che, visto che l’attività di volontariato risulta agli occhi della società positiva e benefica, queste qualità vengano trasferite su chi effettua l’attività e quindi venga giudicato più positivamente e favorevolmente rispetto al resto della società. Sarebbe per questo plausibile pensare che il volontariato accresca quella parte della persona narcisista che si alimenta e trae benessere dai giudizi positivi e dagli elogi che vengono dalla società.

Quanto detto impone dunque una sorta di esame di coscienza da parte del volontario. Non è sufficiente comprendere solo le dinamiche che sottendono la scelta, né le motivazioni alla base di essa. È indispensabile svolgere questo compito gratuito con la consapevolezza di attendere ad un servizio non privo di rischi per la perdita della sua efficacia e alla fine anche per un inevitabile burn out. All’interno di una associazione è indispensabile per prima cosa imparare a fare gruppo.

Il senso di appartenenza ad una associazione deve poter sviluppare e far crescere tra tutti gli associati solidarietà, comprensione e tolleranza reciproca. Non si può offrire una sana relazione al paziente se non si è capaci di relazionarsi nel gruppo costituendo il proprio comportamento testimonianza e modello di condivisione e di altruismo. Il volontario, esposto all’attenzione di un contesto ospedaliero da cui al primo impatto può trarre ammirazione, perde ogni credibilità se nel suo agire manifesta cedimenti o, ancora peggio, condotte non conformi al rispetto altrui e non congrui ad un autentico spirito di servizio.

Bisogna ricordare che si dà ciò che si possiede, e quindi è dalla propria ricchezza interiore che si estrae quello che si può trasmettere. Il volontario e il malato sono due fragilità che si incontrano e non un Io superiore che dispensa il suo bagaglio di saperi ad una persona sottomessa perché sofferente e perché considerata spogliata del suo ruolo sociale. Anzi, finisce che più il volontario abbia bisogno del malato e non viceversa. Spiega bene Longhini che il malato è il medico del volontario, un’espressione suggestiva di quanto la relazione con la persona sofferente sia equilibrata nel dare e nell’avere, nel flusso bidirezionale sul piano umano e affettivo.

Sentirsi integrati nel gruppo dell’associazione crea soddisfazione e benessere, fa sviluppare il senso d’identità: percepire l’attività di volontariato come parte integrante della propria personalità e identità, favorisce la riuscita e la lunga durata dell’attività di volontariato.

Prendersi cura di sé prima che del paziente significa costruire un Sé in grado di dare in modo gratuito senza aspettative di riconoscenza o di riconoscimenti, scevro di quelle incrostazioni psichiche fatte di gelosie, invidie, supponenze, presunzioni e pregiudizi. Vuol dire anche fare del Sé un Io credibile, coerente, mai un Super-Io che oscura quel Tu sofferente, silenzioso, portatore di un insulto al suo fisico o peggio alla sua mente.

Ho detto due fragilità che si incontrano in un reciproco scambio di emozioni, in un processo empatico che porta ad un ascolto attento, sollecito della storia del paziente. Bando all’arroganza di poter offrire soluzioni o trasferire la suggestione che tutto è possibile e sempre nella vita si esce vincitori. Ciò che serve spesso non è la parola ma il gesto della mano che sfiora l’altra e fa vivere il senso di essere a due, l’evento impareggiabile del fondersi di due storie.

Il volontario deve forzatamente sviluppare questa sensibilità nella coerenza e in un comportamento esigente e severo particolarmente sul piano etico. Diversamente la sua attività, seppur gratuita, finisce con il diventare una esclusiva esercitazione egoistica.

Articoli correlati

Natale 2024

Natale 2024

Un augurio per questo Natale 2024 14.000 bambini uccisi nella striscia di Gaza in quest’ultimo anno di guerra. È il dato dell’UNICEF. Sono andato a rileggere una breve poesia che avevo scritto nel clima natalizio di quell’ormai lontano 2012.  Era...

Il potere logora chi ce l’ha

Il potere logora chi ce l’ha

Credo che tutti sappiano della celebre frase dell’ex Presidente del Consiglio Giulio Andreotti: “Il potere logora chi non ce l’ha”. Il famoso politico italiano intendeva dire, naturalmente, che coloro che aspirano al potere si affannano...

Domenico Barbaro

Domenico Barbaro

Di origine calabrese, sono nato a Platì (RC), un paese arroccato alle estreme propaggini dell’Aspromonte volte verso la costa ionica. Dopo aver fatto gli studi superiori mi sono trasferito a Roma dove ho conseguito la laurea in Medicina e Chirurgia presso l’Università “La sapienza”.