04 Ago 2023

Il medico tra professione e missione

Il medico: professione e missione

Che la professione medica fosse una missione me lo ricordava sempre dal suo letto di sofferenza una mia povera paziente. Aveva da poco superato gli ottanta anni e sapeva, con certezza, che ormai era entrata nella cosiddetta fase terminale. La morte, la invocava quasi, la sollecitava a farsi avanti come se stesse nella stanza accanto.

Mentre io entravo nella sua disadorna camera da letto per un’ennesima visita, lei, con il respiro affannoso ed una tosse stizzosa, si voltava a cercarmi con gli occhi, leggeva nei miei gesti l’abituale consolidata empatia e mi diceva con voce sempre più fioca: “La vostra è una missione, dottore, aiutatemi”.

Oggi, a distanza di oltre un decennio, quella frase non si sente più. Sarà perché quei pazienti, così tolleranti e così… pazienti, non ci sono più. O anche perché quel comportamento solidale, di umana partecipazione, si è affievolito nella nuova figura degli operatori sanitari. Ma tutto ormai ha contribuito a mortificare il rapporto con gli ammalati. Si preferisce parlare di missione come mandato formale a raggiungere un obiettivo, di un protocollo diagnostico in cui spesso il paziente c’entra poco, di una verifica formale del risultato e di una altrettanto formale strategia di impresa per aumentare il profitto e diminuire i costi. Ma quell’idea di missione intesa come spirito guida di un’azione sanitaria tesa ad alleviare una condizione di sofferenza attraverso una relazione empatica non c’è più. È sparita dal lessico moderno come un’espressione superata. E sono invece entrate nel nuovo lessico espressioni come aziendalizzazione, produttività, incentivazione, gratificazione, premio.  Con tutto il carico burocratico, sterile e distratto, che ciò comporta. E con il risultato che il paziente smarrisca la sua dignità di persona.

Questa evoluzione, incentrata tutta sulla logica del mercato, scarsamente sensibile alle ragioni della solidarietà, è un progresso vero, o non piuttosto una involuzione? Bisognerà andare avanti necessariamente su questa strada o sarà più conveniente tornare indietro? La verità è che si va diffondendo un crescente disagio in tutti, la sensazione che così non si può andare più avanti. E cresce, da un lato la demotivazione e la distrazione degli Operatori, e dall’altro la disperazione di chi soffre.

Trovo che purtroppo le mode si trasformano in culture, ed incidere su queste non è poi così facile. Se si provasse a restituire all’ammalato la sua giusta collocazione di centralità, e se la sua sofferenza, oltre per una risposta puramente medica, fosse raccolta come bisognosa di essere compresa, condivisa, in una cornice relazionale adeguata, forse l’intervento sanitario complessivo risulterebbe più efficace e certamente si inferirebbe un duro colpo all’idea che produrre salute è come produrre giubbini in pelle.

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Domenico Barbaro

Domenico Barbaro

Di origine calabrese, sono nato a Platì (RC), un paese arroccato alle estreme propaggini dell’Aspromonte volte verso la costa ionica. Dopo aver fatto gli studi superiori mi sono trasferito a Roma dove ho conseguito la laurea in Medicina e Chirurgia presso l’Università “La sapienza”.