(L’obbligo ad essere felice corrisponde a quell’idea di perfezionismo che oggi sembra essere divenuta la religione più diffusa. In quest’ottica esigente ed eccessiva le più piccole cose, le più banali della quotidianità, quando non si svolgono secondo quell’ideale che il sentimento di onnipotenza detta, diventano intollerabili ed ingenerano frustrazione e senso di inadeguatezza. È il percorso del disturbo depressivo che segna il passo a quelle manifestazioni patologiche comportamentali correlate ai disturbi fobico-ossessivi ed ossessivo-compulsivi in cui domina la paura di commettere ciò che per il Super-Io è errore e, di rimando, il contrapposto inutile tentativo compulsivo di evitarlo. Spesso nel disturbo ossessivo la paura dell’errore diviene coscienza di averlo già commesso con la comparsa di un gravissimo senso di colpa.)
Un giorno una mia giovane paziente, nel corso di un setting analitico, mi ha detto improvvisamente e con tono risoluto: “Io non posso obbligarmi ad essere felice.” Una frase all’apparenza banale. Invece quelle semplici parole nascondevano, nella loro immediatezza ed estemporaneità, un dramma tanto profondo quanto comune.
Il “non posso obbligarmi” conferma l’esistenza nell’Io di due entità separate e contrapposte: da una parte il Super-Io che pone l’obiettivo della perfezione, che in un narcisismo compiuto significa appunto il raggiungimento della piena felicità. E dall’altra l’Es con le sue straripanti pulsioni, che segna il passo di brucianti, quotidiane limitazioni. Su questa drammatica discrepanza si fonda l’esperienza esistenziale dell’Io, e l’incubo di non poterla concludere con l’approdo definitivo a un predominio del Super-Io.
A questo “obbligo super-egoico” l’Io giustamente finisce con il ribellarsi proprio nel momento in cui riesce a recuperare quella dimensione umana nella costruzione della relazione terapeutica. La conseguente accettazione del limite, di un rapporto di dipendenza dal terapeuta, cioè dall’alterità, nel rispetto del tempo e soprattutto dello spazio che segna i confini irriducibili del Sé, matura la consapevolezza di non poter in alcun modo raggiungere la felicità piena, che ha segnato in fondo l’esordio della nostra esperienza umana prima della nascita. Da qui la conclusione: “Non posso obbligarmi ad essere felice, cioè “il mio Super-Io” non può obbligare “il mio Io” alla felicità”.
Continuiamo dunque a vivere così, inguaribili illusi, stretti tra due istanze, quella del nostro mondo superiore che ci strattona verso una condizione ideale irraggiungibile, e quella del nostro Es che semplicemente si perde nelle secche della quotidianità fatta di delusioni e sconfitte.
Vista così, la situazione prefigura un eterno conflitto tra due mondi che costituiscono insieme la nostra integrità strutturale, ma che si scontrano inevitabilmente e quotidianamente sul terreno di una realtà amara. Quando il conflitto si fa più aspro è come se nel nostro mondo interiore emergano nitidamente le due figure contrapposte, le due immagini in conflitto, le due realtà che finiscono con l’ingenerare disorientamento, sconforto, sentimenti ambivalenti di attaccamento e di rifiuto della vita.
Lungo questo percorso è la strada della psicosi: un vissuto profondo di lacerazione dove la realtà diviene essa stessa conflittuale. Una destra e una sinistra. Un Io buono ed un Io malvagio. Fino a giungere ad un Io “indifferente”. Quando l’alterità è autonoma dal Sé, o meglio quando il Sé rinuncia ad incontrare la realtà si determina irreparabilmente un autismo psichico. L’altro, dapprima “indifferente”, diventa col tempo nemico e tutto ruota attorno ad una ostilità cosmica. Da qui nasce la fuga dello psicotico in un mondo di fantasia dove l’altro semplicemente non c’è perché non c’è lo spazio che lo contenga e lo limiti. Non c’è perché il Sé si dilata fino ad annullare gli interspazi, fino ad “ingoiare” l’altro in un possesso pieno ma intollerabile.
(Dal libro “La pedagogia dell’onnipotenza”)