Il sentimento depressivo nasce nell’uomo ogni qualvolta si produce in lui una condizione soggettiva di limite e di incapacità. Questa è la semplice ragione per cui il sentimento depressivo è implicito nella condizione umana. Non esiste cioè, nella storia dell’uomo, alcuna circostanza valida a conferirgli una supervalutazione del suo essere, né del suo agire, né del suo progettarsi, né della sua coesistentività: giusta le aspettative del suo super-Io e del suo innato narcisismo. E non esiste, pertanto, in via definitiva, il senso della pienezza e dell’onnipotenza per l’uomo, se non quel tanto che può essere espresso dal Dio in cui egli crede, e che ne ha mediato la “riabilitazione” in rapporto a una futura condizione trascendente.
C’è, dunque, nell’esperienza dell’uomo una persistente discrepanza tra ciò che si può essere e ciò che si è, tra ciò che si vorrebbe fare e ciò che si fa, tra le istanze superegoiche e la crescente invasione del mondo pulsionale. C’è, ancora, una irriducibile tensione al co-esistere, all’incontro con l’alterità per dominarla in una fagocitosi utile a riversarvi la propria incontinente emotività, in una relazione appagante perché perfetta, e perfetta perché totalizzante oltre il tempo.
Ma è soprattutto qui che si esprime la definitiva utopia dell’essere.
La morte, la malattia, il dolore, l’incapacità complessiva a comunicare dentro un modello relazionale certo e definito, i limiti nel possesso del proprio presente e del futuro e infine la frustrazione della relazione d’amore che evoca il sentimento della colpa nel momento in cui si raggiunge la massima espressione del proprio co-esistere con l’altro: questi sono tutti elementi in cui l’uomo raccoglie la propria irriducibile incapacità con la conseguente esperienza depressiva.
Ma ci sono altre ragioni forti, capaci di distogliere l’uomo dalla sua “dimensione d’incapacità” e di vincolarlo al sentimento del piacere che, per essere persistente e fortemente solidale all’arcaico istinto di vita, è in grado di restituire alla esperienza umana la forza della sopravvivenza e della lotta per realizzarsi dentro un progetto di soddisfacente gratificazione.
C’è in questo meccanismo il possibile superamento della depressione e quindi la possibile soluzione per l’uomo alla propria angoscia esistenziale.
Del resto, nella stessa frustrazione del rapporto d’amore si produce la forza della sopravvivenza, l’emergenza dell’istinto di vita, con la potenzialità di concepire un nuovo oggetto d’amore proiettato oltre il limite del proprio esistere.
Anche la separazione dal grembo materno, con il suo carico depressivo, prelude alla possibilità di recuperare, conquistandolo, il “seno buono” da cui attingere nutrimento e gratificazione. L’esperienza poi della perdita che si moltiplica quotidianamente nella co-esistentività, induce l’uomo a coltivare le fantasie del possesso pieno ed incondizionato oltre la spazialità e la temporalità, in un sogno mai sopito di onnipotenza.
Ma soprattutto è nel ridimensionamento delle aspettative superegoiche, nella capacità di un’equilibrata valutazione del Sé che si può giungere a una posizione conciliatoria della propria sofferenza, e quindi a un suo superamento, seppur sempre parziale.
Questo percorso appare suggestivo e a un tempo inevitabile allorché si formuli un programma psicoterapico per il paziente depresso. Diviene necessario, cioè, ridurre le angosce determinate da un Super-Io inflessibile che non concede deroghe a un Io arrendevole alle istanze pulsionali dell’Es. Tutte le condizioni avverse della quotidianità rappresentano in qualche modo l’aspetto fenomenico di queste istanze, e divengono segno dell’incapacità dell’Io nell’adeguare gli avvenimenti alle condizioni severe del Super-Io.
Nella percezione disperante di questa inadeguatezza si alimenta il sentimento di colpa, e perciò il sentimento depressivo. Proprio tale inadeguatezza è da rielaborare nel setting rendendola accettabile, sintonica al senso della vita che è limite, colpa, imperfezione, immanenza. Quando queste attribuzioni non sono contenibili nel Super-Io, esse diventano per l’Io non soltanto motivo di sofferenza, ma, con dinamiche transferali, oggetto di fobie ossessive, in un crescendo di inconciliabilità.
Il recupero appare dunque possibile soltanto nell’acquisizione di una adeguata capacità introiettiva nei confronti degli eventi negativi, stressogeni, alla pari di un superamento ascetico, in cui la colpa diventa motivo di vanto e di orgoglio.
Sarà solo in questo la risposta alla depressione dell’uomo?
La capacità introiettiva, la tolleranza alle frustrazioni, il superamento della angoscia che prelude alla depressione sono il portato di un comportamento appreso o forse non pure l’effetto di determinanti psichici sostenuti da funzioni di circuiti cerebrali segnati biologicamente?
Sicuramente si, anche se non è possibile quantificarne il peso. Resta il dato di uno spazio di libertà capace di garantire all’uomo la formulazione autonoma dei propri progetti esistenziali.
E c’è anche il dato dei vissuti precoci che costituiscono modelli di riferimento su cui saranno necessariamente elaborate le future modalità di essere nel mondo e su cui pesa l’incognita di un condizionamento della risposta biologica che interviene nel momento più attivo della plasticità cerebrale. In ogni caso, l’esperienza depressiva si consuma in una terrificante condizione di isolamento cui la risposta empatica del terapeuta, ma anche l’umana e solidale partecipazione del vicino, può offrire il senso di una possibile riconciliazione con il mondo prima che con sé stessi.
Diceva una mia paziente: “Non si vive per l’altro, ma dell’altro”. Questa dichiarazione, emersa dalla sua profonda condizione depressiva, mi è parsa suggestiva. Non c’è alcuna spinta o motivazione interiore a donare agli altri qualcosa di sé prima di non aver ricevuto. È così che l’altro diviene una propria necessità vitale, che precede storicamente qualsiasi altra esperienza esistenziale. L’altro è il seno riparatore capace di ridurre la nostalgia per quel paradiso perduto che è il grembo materno. L’altro è l’alimento per vivere.
Perciò nella depressione si produce l’angoscia di essere soli: perché questa dimensione dell’alterità è la prima a cadere, come in una inesorabile perdita del cibo, indispensabile alla propria sussistenza.