Lungo la tragedia interminabile della pandemia da coronavirus la scienza ha progressivamente appreso le giuste armi per combattere e annientare questo sconosciuto agglomerato proteico. Lo sta dimostrando la netta riduzione della mortalità di questa seconda ondata epidemica, seppure ancora giornalmente viene pubblicato il numero consistente di coloro che non ce la fanno. E sono tanti, purtroppo. Ci pare legittimo chiederci il perché di questa infausta circostanza, atteso che ormai esiste un rigido quanto efficace protocollo farmacologico. Mi sembra di trovare una giustificazione in diversi fattori.
Prima di tutto bisognerebbe verificare la diagnosi di morte perché ho la sensazione che si stia usando un concetto diagnostico troppo estensivo. In realtà probabilmente i decessi strettamente correlati al Covid-19 potrebbero essere numericamente di molto inferiori a quelli pubblicizzati.
In secondo luogo, ho il timore che per molti non ci sia la possibilità di una doverosa terapia come da protocollo per l’inadeguatezza delle risorse umane impegnate. Intendo dire che negli ultimi decenni si è potenziata a dismisura l’area del supporto amministrativo depauperando con sicura negligenza l’area degli operatori sanitari (Medici, infermieri e OSS), realizzando così una scandalosa discrepanza cui oggi non è facile porvi rimedio in poco tempo. In altre parole, negli ospedali è tornato l’incubo dei “Sommersi e salvati” di tragica memoria.
La mia terza considerazione. Quando il paziente ha la fortuna di pervenire al giusto intervento allora, se non si è perso molto tempo, lo si beneficia di antivirale, antiaggregante, antibiotico, antiinfiammatorio e antireumatico. Sono tutti anti-. E la guarigione dovrebbe giungere di sicuro dopo un percorso che si sviluppa con momenti drammatici.
– Ma perché talvolta l’esito è in ogni caso letale?
L’ho appreso dal racconto di quei testimoni privilegiati presenti nelle sale di rianimazione. Due intensi sentimenti nello sguardo dei pazienti: smarrimento e implorazione, prima di indossare quel “casco di palombaro” che pretende di sostituire i polmoni ormai spenti e che li separa crudelmente e totalmente dal mondo. Nessuno potrà mai comprendere a quel momento il peso della solitudine che sembra opporsi a quei cinque anti- preposti a sconfiggere il coronavirus.
L’incubo del contagio e l’affannoso lavoro per ridurre quanto più possibile “i sommersi” non consente al personale sanitario alcuna relazione con il paziente, nessuna manifestazione affettiva. Cosicché la percezione di essere soli, in fila, destinati a cadere a turno “nel gorgo muti” vanifica l’azione degli anti-.
Ritengo allora che ci sia da aggiungere un sesto presidio terapeutico al protocollo dei cinque anti- per rendere favorevole la prognosi. È una carezza, una manifestazione di tenerezza, un delicato sfioramento fisico che possa leggersi: tu non sei solo. È esattamente quello che continua a mancare. Perché in quei momenti di lotta serrata la solitudine uccide più del virus. Perché è la solitudine, il senso di essere stati abbandonati a sé stessi che spegne la voglia di vivere e con essa quel meraviglioso dispositivo di difesa personale che si chiama sistema immunitario.
– A chi tocca assicurare quella carezza?