Siamo giunti oggi al superamento del cartesiano “Cogito ergo sum” con cui abbiamo definito l’essenza dell’esistere nel pensiero. Cioè il pensiero rappresenterebbe l’elemento fondante dell’Io, un Io separato dal mondo, monolitico, solitario. In realtà l’Io esiste se esiste il tu, cioè se esiste l’altro. Per dirla con Buber (filosofo austriaco) è l’appartenenza la categoria primaria dell’uomo, appartenenza al Sé e all’altro da Sé. In conclusione, il Noi anticipa l’Io. Allora è valida piuttosto la definizione Co-esse ergo esse. Coesisto, dunque esisto.
Questa dimensione del Noi ha la sua genesi in quella primaria relazione simbiotica prima della nascita che suggerisce una co-esistenza segnata dalla perfezione della relazione. Essere uno dentro l’altro è l’esperienza più gratificante dell’esistere perché esclude il senso della morte e simbolicamente si svolge all’infuori di una dimensione temporale per l’Io. Immessi nel mondo attraverso quella separazione del parto che Melanie Klein individua come momento di grave crisi depressiva, siamo portati a misurarci con l’alterità in una dimensione non più rassicurante, non più perfetta, non più esclusiva per un senso già vissuto di possesso pieno, anzi gravida di rischi di perdere.
È nell’alterità, dalla nascita in poi, che si scopre il senso dell’esistere; che anzi essa connota in modo esclusivo l’esistere. È il Noi, dunque, che ci ripara dal pericolo del disturbo mentale, è il NOI il nostro rassicurante paracadute.
Questa dimensione ci consente di esprimere l’indicibile ricchezza della reciprocità che non è isolamento come nel depresso, non è paura dell’altro come nelle psicosi e nelle stesse nevrosi, non è un ossessivo ed esclusivo possesso dell’altro come per fagocitarlo e distruggerlo, come purtroppo avviene in tante manifestazioni patologiche del nostro tempo.