Lettera di un nonno al proprio nipote (seconda parte)
Caro nipote, posso dirti che per me la nonna materna fu un’importante figura di riferimento. La sua sola presenza era più loquace delle parole. Il suo saio nero lungo fino a terra, il suo viso segnato da rughe profonde, il suo sguardo tenero e, a un tempo, intenso mi raccontavano tutto il suo passato: il suo precoce matrimonio, gli stenti di una povertà vissuta con grande dignità e decoro, l’affettività sparsa a piene mani nell’ampia cerchia di parenti e conoscenti, il forte senso religioso e il rispetto degli altri così tenacemente innestati nel suo genoma.
Non le restava proprio nulla da esprimere con le parole. Non mi ha mai detto nulla del nonno. Non mi ha mai raccontato il suo dolore quando i figli più grandi partirono per l’America e lei non li vide più. Non mi ha mai accennato di quando sulla tavola per il pranzo c’erano solo poche pannocchie arrostite al fuoco o qualche misero piatto di cicoria di campo che la vicina di casa le aveva portato in dono. La sua lezione fu per me la sua viva testimonianza: modestia, moderazione, silenzio, generosità.
Mi sembrò si fosse incaricata di prolungare la sua vita fino ad assolvere il suo più importante compito, quello di aiutare mia madre che avrebbe avuto, oltre ai primi tre figli, due gemelli. Quando questi giunsero a un anno e mezzo di età, sentì che allora e solo allora poteva andarsene. Morì con grande riservatezza e con grande dignità, senza nessun lamento, una fredda mattina di dicembre. Aveva chiesto solo che giorno fosse, quasi per assumere piena consapevolezza che quello era proprio il giorno giusto e designato dell’addio. Solo quando ebbe da mia madre la risposta: “è mercoledì” lei si addormentò per sempre.
Anche il pianto di mia madre fu contenuto, silenzioso, premuroso per i figli che ancora dormivano beati. L’inverno ha accompagnato molte partenze nella mia famiglia, come se il tempo inclemente e il rigore dell’aria pungente e gelida fosse la cornice più idonea a dare il senso del distacco e del lutto. Fu così anche per il nonno molti anni prima. Era mulattiere. Era un uomo taciturno e schivo. Gli si addiceva proprio il mestiere al suo carattere. Lui scelse il mese di gennaio per andarsene, e lo fece mentre si apprestava a salire ancora una volta sui dirupi scoscesi e impervi dell’Aspromonte. Non ho mai saputo immaginare come egli fosse realmente, perché nessuno me ne ha parlato, quasi per aderire ad un suo desiderio testamentario. Forse sarà stata anche una mia negligenza non chiedere di lui alla nonna, di non ottenerne per me un qualche piccolo ricordo che restasse per sempre nella mia memoria. Eppure, portava il mio stesso nome.
Per questo a volte mi sembra di vederlo nei miei gesti, nel mio comportamento che nessuno mi ha mai dettato in quella solida formazione adolescenziale che ho ricevuto. Una figura antica, così lo considero, che ancora oggi mi suggerisce moderazione e riservatezza. Di queste stesse doti ovviamente era portatrice anche mia nonna. Ma in lei ho visto impresso in modo palese e più deciso un altro grande valore: il forte sentimento religioso.
Per una forzata, lunga assenza di mia madre, fu lei a prenderne il posto. Assolse così bene il suo compito da non farmi accorgere di nulla, da sottrarmi ad ogni minima manifestazione di gelosia o di rimpianto. Dormivo perfino con lei. Sentivo il suo abbraccio rassicurante quando mi assalivano gli incubi notturni.
Mi svegliavo piangendo e per lei la soluzione era unicamente quella di portarmi in chiesa a bere il vino residuo nell’ampollina a messa finita. Credenza o superstizione che fosse pareva così essersi risolto tutto. Immancabile la preghiera della sera. Era appena buio e in paese ancora si udiva il vociare della gente che tardava a rincasare e noi eravamo già a letto. Qualche vicino di casa osservava che noi “andavamo a letto con le galline.” Ma questo era il nostro orario, questa la nostra regola.
Ricordo quella flebile fiamma della “lumera” che sembrava spegnersi ad ogni piccolo movimento d’aria che si intrufolava dalle tante fessure degli infissi. Subito dopo sembrava riprendere vigore e disegnare strane ombre sui quattro muri anneriti dal tempo. La loro visione mi faceva rabbrividire di paura e subito stiravo la coperta a coprirmi completamente il viso.
Avremmo fatto l’alba svegliati dall’allegro scampanellio di un gregge di pecore che partiva per l’Aspromonte. Davanti la nostra casa faceva ogni mattina la sosta di rito per assicurare le richieste di latte munto davanti all’acquirente. Era questa una garanzia assoluta di bontà e freschezza. Nel lento svolgersi di quelle giornate assolate regnava uno strano silenzio. Si udiva di tanto in tanto il martellio del fabbro che forgiava il ferro o la voce discreta di qualche passante che interloquiva in un occasionale incontro.
Nella quiete domestica risuonavano sovente ben altri discorsi: “- Quando sarai grande diventerai sacerdote e così potrai dirmi molte Messe.” Di chi poteva essere questo ambizioso progetto se non di mia nonna? E a chi si rivolgeva se non a me? Non so perché a me e non a miei due fratelli. Per lei era divenuto un ossessivo richiamo che nasceva indubbiamente dalla sua profonda sensibilità religiosa e dalla sua incrollabile fede. Un ritornello che con il tempo aveva finito di strutturare nel mio animo una inspiegabile quanto ferma vocazione sacerdotale. Poi in realtà le cose si svolsero diversamente, ma certo non per mia volontà.
I miei nonni paterni li ricordo sempre là, in quel vecchio tugurio a due piani in compagnia di due tartarughe centenarie. Erano l’immagine della pace e della serenità. Non andavo frequentemente a trovarli, ma sapevo che essi erano là, dignitosi e composti come appartenessero a tempi ancora più antichi. Sul pianerottolo che completava una precaria scalinata di pochi gradini, appena fuori l’uscio di casa, mio nonno sostava volentieri a godersi la sua sigaretta di stramonio dopo una giornata passata a pascolare le capre. Diceva, giustificandosi, di trarre beneficio per i suoi problemi asmatici.
La nonna paziente la ricordo intenta a filare la lana. Era certamente più loquace del nonno, più disponibile a raccontarsi. Lei vantava una discendenza di donne che avevano il dono di guarire con la manipolazione le fratture delle ossa. Anche lei aveva ereditata questa capacità, che metteva a frutto con un dichiarato spirito di carità evangelica. Il nonno portava sul volto i segni della perdita di ben due fratelli nella Prima guerra mondiale. Uno di essi si chiamava Francesco. Perciò quando nacque mio padre, dopo aver rispettosamente chiamato Rocco il primo figlio in onore di suo padre, gli diede nome Francesco.
Lui, mio nonno, si era rifiutato di arruolarsi perché era sicuro di finire come i suoi due fratelli. Si era dato alla macchia in Aspromonte per un breve periodo e fu, alla sua maniera, un obiettore di coscienza. Questi nonni paterni furono i nonni della mia fanciullezza. Anch’essi scelsero un mese invernale per il loro addio.
Ero da qualche mese in collegio quando mi giunse la lettera che mi comunicava la loro morte. Fu precisamente nel mese di febbraio. Se ne andò prima la nonna e il nonno non resistette a restare da solo, a sopravvivere alla sua compagna di vita. Forse lo reputava un torto o una colpa. E così decise di morire appena cinque giorni dopo, benché fosse stato accolto fin dal primo giorno in casa nostra.
Questo triste finale mi colpì molto. Mi rivelò tutta intera la loro grande considerazione per quell’amore di coppia che avevano mantenuto in vita e avevano rimarcato nel loro comune uscire di scena. Una rara testimonianza del valore della famiglia e della solidità della loro unione.
Mio caro nipote, nel raccontarti queste piccole storie immagino di trasmettere a te da quali radici nasce anche la tua storia. Trovo indispensabile che tu le conosca queste radici perché inevitabilmente esse hanno lasciato il segno su quelle misteriose eliche che rappresentano il codice della tua vita, e perché se non le lasciassi qui scritte forse si perderebbero e non ne verresti mai a conoscenza. Una perdita insanabile!
Questo spazio dialogante nonni-nipoti, lo voglio ribadire ancora, è oggi più che mai vitale per un mondo che sembra procedere in modo sbandato e confuso, senza riferimenti credibili e con un vezzo crescente, quello del negazionismo, che censura le tragedie del passato e si proietta verso un ottimismo maniacale e avido di edonismo. Io invece sono qui a sfogliare con te qualche pagina del nostro passato per attingervi conoscenza e saperi antichi, per riportarne il giusto senso della vita e fiutarne i valori più autentici, i valori-guida per il tuo futuro.
Per raggiungere questo obiettivo non voglio di proposito limitarmi a quanto ho scritto sulle mie e tue radici, che seppure modeste e fragili hanno dischiuso un mondo di povertà, di solidarietà, di sentimento religioso, di modestia, di sofferenza accolta e vissuta in piena armonia. Voglio estendere gli orizzonti anche a quel mondo più vasto che ha rappresentato il contesto socioculturale in cui sono nato, sono cresciuto e ho costruito i miei personali progetti di vita.
Nelle due principali istituzioni formative, la scuola e la famiglia, vigeva allora un’etica ben strutturata, salda, coerente, che segnava il limite ben definito tra il consentito ed il non consentito. La scuola rappresentava la sola via di riscatto dalla povertà e dalla emarginazione. L’abbandono scolastico era riconosciuto come una piaga da debellare. L’insuccesso scolastico non costituiva il segno di un fallimento totale ed irreversibile, ma semmai uno sprone per un maggior impegno ed una migliore vigilanza, particolarmente della famiglia.
Il lavoro era un valore primario, a prescindere dalla tipologia, anzi quello più modesto appariva il più rispettabile, ancor più se i sacrifici ad esso connessi erano evidenti e pesanti. Su tutte le vicissitudini della quotidianità proiettava il suo deciso influsso il valore della religione. In funzione di essa si giustificavano gli eventi, anche i più dolorosi, come fosse un unguento riparativo capace di sanare ogni ferita. Questa concezione ben salda in quella cultura restituiva senza dubbio alla persona quella capacità di tolleranza e resilienza indispensabili ad una serenità che oggi parrebbe disarmante e ingiustificata. Finiva con l’essere una vera e propria filosofia di vita.
Ma ciò che era conservata saldamente e gelosamente era la dimensione del tempo e dello spazio. Il tempo si poteva contare sulla base di quei rintocchi che le campane della Chiesa sembravano diffondere sui tetti delle case, quasi per raggiungere tutti. Annunciavano ora l’Angelus a mezzogiorno, ora l’Ave Maria serale a chiusura di una giornata faticosa e spesso ingrata. Era davvero lento quel tempo e nessuno osava inseguirlo. Nessuno dichiarava di non averlo. Come anche lo spazio stesso pareva non soffrire dei luoghi angusti e solitari, delle viuzze strette che davano la suggestione di contenerti tra due file di case sempre aperte e disponibili. Lo spazio non aveva l’ambizione di oltrepassare quel confine oltre il quale c’era la marina, un mondo diverso, troppo dispersivo. A cosa poteva servire raggiungere quegli spazi incerti e cangianti, occupati da persone sconosciute e restìe a guardarti in faccia?
Meglio la sicurezza di esserci tra le case, tra gli affetti di sempre, tra le buone maniere di chi garantiva un saluto e un sorriso. E poi, anche la povertà diveniva più tollerabile e meno amara qui. Forse per quella congenita solidarietà che nasceva proprio dai bisogni e dal senso del reciproco donare. Unico superstite legame con il mondo esterno quella vecchia corriera che, superando le ultime propaggini aspromontane, scendeva faticosamente alla marina per poi fare ritorno entro il pomeriggio. Anch’essa sembrava non avere fretta. Rallentava negli ultimi tornanti senza concedere nulla al previsto orario di arrivo.
Chi aveva fretta qui era soltanto il sole che anche in estate non vedeva l’ora di nascondersi dietro la montagna altezzosa e fragile concedendo abbondante spazio alle ore serali, sempre ventose e melanconiche. Quel vento spazzava simbolicamente gli affanni e le vicissitudini del giorno e induceva al rientro in casa per un meritato riposo.
Caro nipote, il mondo che ti ho descritto in modo sommario, ma – ti assicuro – senza enfasi, ovviamente non c’è più. È scomparso assieme a quel bambino che non conosceva internet, tv e smartphone, né poteva mai immaginarli, fosse anche con la più accesa delle fantasie.
Quel bambino non conosceva nemmeno il mare. Portava il grembiule nero ed il fiocco azzurro quando andava a scuola, e il pomeriggio era là a fare i compiti senz’altra distrazione che un pallone sgonfio da rincorrere nel breve tratto di strada attorno alla casa. Ora quel bambino è il tuo nonno, catapultato in un mondo così diverso e così inquieto. È un nonno preoccupato che ti scrive con l’ansia di farti comprendere come sulla rotta che sta seguendo questo mondo non potrà il tuo futuro non essere gravido di complessi problemi esistenziali prima che sociali.
Quell’antica enclave del mio paese, quella bolla geografica che conteneva e coltivava inestinguibili valori è scoppiata estendendosi a dismisura verso orizzonti molto lontani. Anzi essa stessa è divenuta il centro del mondo perché nel web non esistono confini e lo spazio sembra non avere più limiti. La globalizzazione non è un processo artificioso, è l’espressione di un villaggio globale che avendo reso illimitati gli spazi ha contratto i tempi, dove ci si può parlare, si può dialogare, ci si possono scambiare foto, dati e merci con grande facilità e speditezza. È la conseguenza di una comunicazione nuova, profondamente sovvertita rispetto al passato e di una caduta di barriere che rende gli spostamenti rapidi ed agevoli.
La dimensione spazio-tempo, che negli anni ormai lontani rappresentava un attributo rigoroso dell’esistenza, è così divenuta fluida al punto che rincorriamo oggi una velocità sempre più elevata e un tempo che appare sempre più insufficiente. Il rischio tra queste estreme elasticità, che rendono gli spazi dilatati all’infinito e i tempi variabili fino a richiedere sempre più tempo, è quello di generare ansia, irrequietezza, intolleranza da una parte e dall’altro sentimenti di onnipotenza.
L’uomo è giunto a misurare dimensione e distanza del buco nero al centro della nostra galassia, a conquistare lo sguardo oltre i suoi confini, ad accorciare i tempi degli spostamenti terrestri, a far viaggiare i messaggi con la velocità del suono. Tutto questo si va traducendo nel cervello dell’uomo nella suggestione di poter dominare il mondo e con esso le sue storie di conflitti, incomprensioni, sofferenze. Insomma, un superuomo che non ha ostacoli dinanzi a sé, capace di creare la vita in laboratorio, di relazionarsi con l’alterità in modalità oggettuale, di anestetizzare ogni stimolo dolorifico, di esorcizzare la morte prevenendone l’esito, di utilizzare la strategia dello scarto per eliminare tutto quello che sembra non servire più.
Qualcuno pensa, ad esempio, che anche i vecchi, infermi o con gravi limitazioni, possano non servire più. È l’arroganza di non avere più bisogno di nessuno, di poter fare a meno delle proprie radici e della propria storia, di poter autonomamente guidare il proprio destino non lasciandolo possibilmente in mano ad alcuno, nemmeno a un improbabile dio, tantomeno ad una alterità insidiosa e spesso nemica.
Si giunge così alla sacrilega cultura dell’eccesso, al culto del potere, alla farneticante ricerca dell’apparire, all’esaltazione del dio-denaro, all’egoismo ed all’egocentrismo più spinto. Tutto, dunque, è fluido ed incerto: i valori, i principi etici, lo spazio, il tempo, l’insopprimibile differenza di genere che garantiva finora la propria indiscussa identità.
Sì, anche la decisa appartenenza ad un genere è divenuta oggi incerta, con il maschio che emula ossessivamente la femmina e, di rimando, questa il maschio. La sessualità appare in tal senso sovvertita e vissuta clamorosamente dentro comportamenti ambigui che disorientano e rendono fragile perfino la struttura della famiglia. Un’istituzione, questa, che nel prossimo futuro potrebbe correre il rischio di vacillare rovinosamente.