15 Ott 2024

Il senso della sofferenza

Il senso della sofferenza

Lettera di un nonno al proprio nipote (ultima parte)

Caro nipote, se porto alla tua attenzione quella che può essere definita la suprema sofferenza dell’uomo, cioè la sua morte, mi risulta agevole poter evidenziare che essa in una visione laica riduce la vita ad un inutile esercizio di lotta alla sopravvivenza. Un lungo rosario di vittorie e di sconfitte fino al momento in cui sarà la morte alla fine a cantare vittoria. In una visione trascendente invece ciò che cambia radicalmente è il senso della sofferenza. Da un suo significato di condanna, di castigo, di punizione diviene paradossalmente una circostanza positiva, un dono di cui fregiarsi in totale accettazione.

Un mistico come San Pio da Pietrelcina diceva: “-Soffro quando non soffro”. In questa ottica scompare il problema dell’eutanasia e di altre strategie evitanti il dolore in generale. È dunque solo la visione cristiana che consente una radicale giustificazione della sofferenza e ne esalta al contempo il senso della partecipazione alla sofferenza dell’Uomo-Dio. Il Cristo storico ha riabilitato la sofferenza ed ha allegato ad essa l’aspetto redentivo in una corretta visione escatologica. Come dire che la via della croce è e si identifica in ogni caso con la via della salvezza.

Naturalmente questa è una strada agevolata per affrontare il problema della condizione umana segnata da mille circostanze che disegnano la complessiva fragilità umana, la precarietà del tempo e la sua dannata imponderabilità che non consente progetti dal certo respiro. Si tratta di una risorsa riservata a chi crede e a chi nel silenzio cerca di intercettare il flebile sussurro o “il vento impetuoso” diffusi dalla grazia e il mistero. Ma io non credo che questa grazia sia inibita ad alcuno sulla terra, perché in ogni caso per tutti può realizzarsi quell’incidente paolino sulla via di Damasco.

Proprio Paolo scriverà poi di quella grazia che ha colpito deliberatamente la sua fragilità, divenuta improvvisamente un suo vanto: “-Mi compiaccio delle mie debolezze.” Fuori da questi percorsi ovviamente c’è la strada in salita di una maturazione umana che guarda all’avventura esistenziale in un quotidiano esercizio di superamento degli ostacoli al proprio progetto di vita. I rischi sono molteplici.

L’ambizione ad un perfezionismo dettato da una cultura corrente e che partorisce quotidiane intolleranze alle minime frustrazioni spinge verso soluzioni estreme di evitamento. La via della droga, ad esempio, è una di quelle assurde soluzioni che le generazioni degli ultimi decenni hanno praticato, e che continuano a sostenere nell’equivoco che possa anestetizzarsi ogni stimolo doloroso della vita con un semplice ricorso a delle sostanze. Eppure, per molti è la via della morte e del proprio annientamento morale.

Si costruisce una relazione alternativa che simbolicamente si propone come una relazione piena e totalizzante dove viene annullato il rischio di perdere perché la relazione con la sostanza integra una relazione simbiotica. Si sfugge così alle relazioni umane dove invece il rischio di perdere è elevato, dove l’incomprensione e la distanza segnano dolorosamente il possibile fallimento del proprio progetto. Si sfugge a quella mirabile suggestione emozionale della reciprocità, dove il vallo di separazione è espressione diretta del sofferto incontro che non può non svolgersi nel contesto fluido dei propri limiti e della propria ed altrui fragilità.

Anche il ricorso incontrollato all’uso di psicofarmaci e dell’alcol rappresenta la medesima strategia di evitamento degli affanni e dei problemi che l’esistenza impone. Si tratta, in conclusione, di soluzioni che creano severa patologia psichiatrica. Evito qui di aprire a tal proposito un altro doloroso fronte emergente, quello delle nuove dipendenze, ludopatia, shopping ed altre manifestazioni compulsive. Un capitolo esistenziale fatto di tragedie familiari, drammi quotidiani nel segno della disperazione entro la quale sono davvero scarse le vie di uscita.

Quando si determina un tentativo caparbio di negazione della sofferenza in generale, e quindi anche della morte in particolare, si dischiude per l’uomo la via della disperazione, del conflitto profondo, fino alla rinuncia della stessa vita in un sussulto di rabbia verso chi quella vita ha donato. Albert Camus non riusciva ad arrendersi alla fede in Dio perché non sapeva spiegarsi perché i bambini muoiono. Una sofferenza senza ragione e su persone indifese.

Come senza ragione è la sofferenza di coloro che invocano la libertà del fine-vita. – Un uomo in condizione vegetativa cosa può rappresentare? Perché non può essere libero di decidere in autonomia la sua fine?

Eppure, per chi crede quel letto di dolore rappresenta la croce del Cristo, e quindi la partecipazione ad un progetto di salvezza definitiva. C’è dunque chi quel letto tiene in odio e chi accetta di poggiarvisi in una indiscussa condizione spirituale di privilegio.

Caro nipote, lo vedi come cambia la prospettiva nell’angusto passaggio tra due opposte visioni? Se un uomo ha la capacità ogni tanto di voltarsi indietro nella propria vita, allora potrebbe accorgersi che eventi inspiegabili si raccordano in una dimensione progettuale costruttiva e tutt’altro che banale. Sono i puntini di Steve Jobs che si ricongiungono in una costruzione assolutamente significativa e quasi provvidenziale.

La lettura di chi pretende assegnare un senso agli eventi nell’hic et nunc del loro verificarsi è una lettura miope e spesso non attendibile. Anche avere un rifiuto da chi lo si vede come il proprio elettivo oggetto d’amore corrisponde oggi ad una sofferenza intollerabile.

Si apre così il sipario su un altro degli inquietanti fenomeni del nostro tempo, il cosiddetto femminicidio. È un neologismo che certo non era conosciuto ai tempi della mia giovinezza, ossia fino a qualche decennio fa. – Perché il rifiuto da parte di una donna rappresenta un rifiuto cosmico e quindi un fallimento inesorabile e definitivo della propria esistenza? O quella donna racchiude in sé il senso del mondo intero o invece vige l’insostenibilità di una frustrazione minima cui potrebbero contrapporsi mille altre risposte positive.

Nel primo caso non viene considerata l’impareggiabile multiformità e ricchezza delle relazioni umane, nel secondo caso sembra prevalere il proprio sentimento di onnipotenza che molto semplicemente non ammette dinieghi. In entrambi i casi è la via della follia. Sopprimere il proprio esclusivo oggetto d’amore vuol dire sopprimere il suo diniego e contestualmente vuol dire abbattere quel corpo che rappresenta la barriera che si frappone ad entrarvi dentro in un rapporto simbiotico, privo del rischio di perdere. In questa suggestione si abbatte il più delle volte anche il proprio corpo, barriera anch’esso del folle progetto fusionale. Si tratta naturalmente e per fortuna di casi limite che pure sono in preoccupante crescita.

Oltre vi sono comportamenti meno aggressivi e meno visibili che non raggiungono l’onore della cronaca, ma non per questo meno significativi. Sono le mille violenze di chi si misura con l’alterità sempre in chiave conflittuale, come se essa fosse in ogni caso minacciosa e ostile. Talvolta è anche vero.

Penso al bullismo, un altro fenomeno che mette a nudo l’attitudine della società in generale di emarginare chi è più debole e più indifeso. Quando l’adolescente esce dal proprio contenitore familiare, rassicurante e privo di rischi, deve forzatamente entrare in un contenitore più ampio che dapprima è rappresentato dal gruppo dei pari e successivamente dal più complesso e pericoloso contesto sociale. Lungo questo processo esistenziale, non solo inevitabile ma vantaggioso per il proprio progetto di vita, spesso si sviluppano contrapposte reazioni emotive.

O vi si accede nascondendosi nel gruppo o si struttura una posizione di netta diffidenza che interpreta ostilità in ogni atteggiamento dell’altro. Nel primo caso si cerca una totale omologazione persino nell’abbigliamento fino ad una estrema condizione di plagio. Si realizza il rischio di svelare le proprie insicurezze e di predisporsi ad un comportamento ancillare che può giungere a quell’asservimento ed a quella disponibilità a subire violenze e pressioni psicologiche gravi. Un peso intollerabile che talvolta si cela per vergogna fino alla resa, cioè fino ad un ubbidiente atto suicidario.

Nel secondo caso si cade nel burrone della diffidenza e delle relazioni conflittuali che si inverano nella inevitabile e progressiva incapacità dialogica.

Perciò, caro nipote, entrare nel gruppo dei pari o entrare nel contesto sociale implica un saldo ancoraggio ai propri principi etici e la capacità di distinguersi, di andare controcorrente, di conservare una sicurezza interiore poco indulgente alle mode e ai luoghi comuni, di tutelare fino in fondo la propria identità etica.

Comprendo che queste doti debbano essere precocemente garantite da un intervento educativo ed affettivo fin dai primi mesi di vita, un intervento che è dunque appannaggio della famiglia. Si tratta di un intervento ostacolato quotidianamente dai media che vi si frappongono oscurando spesso ciò che giunge dalle presenze parentali, comprese ovviamente le presenze aggiuntive dei nonni che segnano il sentiero di congiunzione tra passato e presente.

Vedi perché ho voluto assumermi l’iniziativa di scriverti questa lettera? Proprio per fissare sulla carta i richiami che ritengo utili per te, mettendoti al riparo dalle sirene ammalianti di una cultura dell’edonismo, dell’egoismo e del borioso e incosciente senso della vita. Ma le insidie di un mondo stravolto e inquieto non si fermano qui.

Hai tenuto in mano fin dalla nascita smartphone, tablet e playstation. Strumenti innocenti all’apparenza, spesso accordati come via di uscita per renderti quieto e buono, per non infastidire gli impegni degli adulti. Strumenti talvolta sostitutivi della presenza fisica di chi avrebbe dovuto badarti. Eppure, da questi strumenti derivano speso danni, oserei dire, irreparabili.

Transitano sul display scene, messaggi, proposte, linguaggi che sfuggono ad ogni doveroso controllo degli adulti. Transita un mondo virtuale tanto menzognero quanto affascinante, un mondo violento e aggressivo nel lessico e nel comportamento, un mondo senza valori e senza regole, un mondo di eterne vittorie e mai di una minima sconfitta. L’altro di cui si ha bisogno profondo si costruisce autonomamente e si propone con una identità, un profilo disegnato per piacere e per esprimere capacità, potenza e perfezione.

Si conferma così la suggestione di una realtà sempre piacevole e performante in cui potersi rifugiare ogni volta che l’esistenza mostra il suo vero volto di fragilità e di inevitabili frustrazioni. Esattamente questo è il percorso insidioso verso l’autismo e la visione delirante della realtà. È il rischio della dimensione psicotica che travolge la modalità di essere-insieme-nel-mondo. Contro questo rischio è necessario realizzare un atteggiamento critico che non può non coinvolgere il mondo degli adulti.

A te io dico: privilegia l’incontro fisico con l’alterità, quello che ti mostra limiti e imperfezioni del bisogno dialogico. Non fermarti al WhatsApp che è un canale di comunicazione tanto utile, ma spesso tanto pericoloso. Leggi negli occhi e nel cuore di chi ti sta vicino i suoi sentimenti veri, le sue ansie, le sue paure. Nella sua gestualità, nella sua postura potrai intravedere l’affascinante sintassi della reciprocità che si fa nel tempo amicizia, amore, condivisione, solidarietà.

Per questo la mia coscienza mi spinge oggi a dire a te in modo conclusivo: fai attenzione a non intraprendere la via degli incontri virtuali, del ritiro sociale, della follia, del disturbo mentale che non sa sintonizzare le tue aspettative spesso ridondanti e l’orizzonte esistenziale che non può per sua natura eludere la fatica di ogni conquista. Anzi, talvolta la vita ti sbatte in faccia un fallimento quasi per metterti alla prova. Rimani saldo al timone della verità. Non vivere mai con la paura di sbagliare, di mostrare agli altri la tua fragilità e il tuo limite. Non disdegnare il pianto quando porti dentro di te un dolore o qualche piccola, immancabile ferita.

Caro nipote, tante altre cose avrei ancora da aggiungere. Ma mi fermo qui. Voglio chiudere consegnando a te due immagini simbolo dell’umanità che si fa debole, anzi dell’umanità che si compiace di ostentare la propria debolezza, dell’umanità che preferisce il silenzio alle parole, dell’umanità che infine eleva ad autentico valore la sofferenza.

La prima è quella di Papa Giovanni Paolo II. Affacciato alla finestra di Piazza San Pietro mostra la sua grave debilitazione fisica, la sua terminale condizione d’incapacità. Fa uno sforzo sovrumano a pronunciare almeno una parola. Niente. La sua bocca torna a chiudersi in una smorfia di dolore. Poi scende il sipario su quella sua fragilità che va ad imbattersi con la fine della sua vita terrena. Il mondo lo guarda e vede proprio nella sua debolezza la sua forza. Ti assicuro, Lui non è mai stato così eloquente come in quella sua dimostrazione afasica.

Il suo successore, Papa Francesco, si fa condurre sulla sua sedia a rotelle. Anche per lui non c’è occasione più espressiva della sua grandezza e della sua autorevole lezione di umanità come in questa pesante menomazione, esibita nel segno della sua dimensione esistenziale, con la dignità che sa assolvere la sofferenza restituendola al suo valore. I potenti della terra, al contrario, si affannano a mostrare il loro efficientismo, la loro forza, la loro performance fisica, i loro successi, la loro invincibile grandezza.

È l’immagine falsa di chi privilegia la spettacolarizzazione della vita e le sue apparenze, dietro le quali inevitabilmente si rischia di scivolare sul franoso burrone di un evidente vuoto interiore.

Quante persone nel loro piccolo emulano i potenti della terra! Quanti giovani avvertono lo smarrimento del loro sguardo che non ha più dove guardare per attingere sicurezza e conforto. Finiscono con il rincorrere spesso una realtà che esiste solo nella bugiarda fantasia del web. Ma la vita è un’altra cosa. E imparare a conoscerla bene ti aiuterà ad uscirne vincente sempre, nel bene e nel male. I nonni hanno questo preciso compito, consegnare ai propri nipoti gli strumenti per navigare sicuri tra questo mondo entrato in confusione. Ed io con questa lettera non ho voluto sottrarmi certamente a questo obbligo che sento di avere nei tuoi confronti.

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Domenico Barbaro

Domenico Barbaro

Di origine calabrese, sono nato a Platì (RC), un paese arroccato alle estreme propaggini dell’Aspromonte volte verso la costa ionica. Dopo aver fatto gli studi superiori mi sono trasferito a Roma dove ho conseguito la laurea in Medicina e Chirurgia presso l’Università “La sapienza”.