Lettera di un nonno al proprio nipote (terza parte)
Caro nipote, tu, figlio di questo tempo, senti che la tua mente conquista decisamente estreme performance nella sfera intellettiva ma subisce purtroppo nella sfera emozionale una progressiva condizione di fragilità, capace di ricacciarti nei crinali oscuri del disturbo psichico. Questo io osservo in modo chiaro. Si tratta, a pensarci bene, di un processo schizofrenico che da una parte ti assicura il dono di una intelligenza crescente e dall’altra impoverisce il mondo delle tue emozioni e del tuo equilibrio emotivo-affettivo.
Il punto è come fare per riconsegnare il giusto ruolo a questo mondo emozionale, reso povero da un inevitabile ed ingiusto appiattimento. Tutta colpa delle relazioni interpersonali che preferiamo costruirle oggi in modo virtuale a nostro piacimento per soddisfare principalmente un nostro esagerato narcisismo.
La realtà virtuale ci affranca dalle sbavature della vita, dalle impreviste svolte destabilizzanti dei nostri percorsi, dagli stimoli dolorosi nei confronti dei quali sviluppiamo una tolleranza zero. Allora sono qui a dirti che devi riappropriarti di quella irriducibile ed intransigente dimensione umana entro cui tutto è relativo, tutto provvisorio, tutto incerto. Particolarmente il dolore è elemento fondante del vivere quotidiano.
Nell’incessante sfida alla vita esso è il rischio più prossimo ed il meno evitabile. Bisogna correrlo con la fierezza e la dignità di chi non si arrende, ma prosegue la lotta per mantenere vivo e stimolante il senso del proprio esistere.
Caro nipote, ho fatto esperienza che c’è una strada percorribile adatta ad affrontare ogni peso esistenziale che sarai costretto a sostenere: la strada di una convinta e fervida spiritualità. Non si tratta di un approfondimento scolastico, né di una teoria da indagare, né di una esercitazione da svolgere. La spiritualità è legata a un dono che si chiama fede che consente di poter avere lo sguardo lungo, oltre gli orizzonti esistenziali, verso un mondo altro che si identifica con la trascendenza.
La fede, dunque, è un salutare incidente che colpisce d’improvviso o, talvolta, in modo progressivo ed inavvertitamente il percorso esistenziale dell’uomo guidandolo verso una lettura dell’immanenza imperfetta e precaria in contrasto con la trascendenza perfetta ed eterna. L’uomo percorre i sentieri imprevedibili della sua storia e non mancherà mai di trovarsi impantanato prima o poi sulla via di Damasco senza rendersene conto. È qua, su questa via, che si gioca il suo destino, quando potrà o non potrà ascoltare la voce salvifica di un Dio che pone forte e a sorpresa il quesito ultimo e definitivo. Tocca all’uomo rispondere.
La fede è questo dono-proposta che si offre all’uomo indipendentemente del suo stato e dei suoi comportamenti. E c’è un momento ben preciso per accoglierlo o per rifiutarlo. È come un vento, questo dono, che soffia spesso in modo impercettibile ed imprevedibile sugli eventi della vita per risvegliare la coscienza, mettendola in crisi. Suggestiva la frase evangelica: “Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va.”
Ho sempre pensato a questo carisma che sorprende, perché investe il ricco e il povero, l’emarginato, il disperato, e preferibilmente chi crede in modo spavaldo e spocchioso nella propria autosufficienza. Perciò esso è in ogni caso capace di sorprendere. Il rischio è solo quello di essere distratti, di non accorgersi di questo momento irripetibile di grazia. Questo rischio faceva dire a sant’Agostino: “Timeo Dominum transeuntem et non revertentem.” “Temo che il Signore passi e che poi non ritorni più.” Sarebbe davvero una tragica distrazione.
I rumori del mondo oggi sono divenuti più assordanti, forse più ammalianti, certamente più capaci di spargere attorno all’uomo confusione e disorientamento. Non è questo il clima ideale per avvertire quell’alito di vento soprannaturale che porta con sé la chiamata divina.
Caro nipote, serve il silenzio rispettoso ed umile per captare la voce misteriosa di quel richiamo al senso ultimo delle cose. Soltanto così la ricerca di Dio diviene possibile e fruttuosa. Così si può comprendere che essa urge non solo per sedare le nostre ansie e le nostre paure, ma anche per giustificare la nostra esistenza con le sue immancabili e spesso ingiustificabili sofferenze. Mi vengono sempre in mente a questo proposito le parole di Giorgio Caproni, poeta del Novecento: “Prego non perché Dio esiste, ma perché Dio esista.” Se Dio esiste, l’uomo cessa di sentirsi dio.
Nel clima profondamente laico e materialista del nostro tempo, spinto dalle sue crescenti capacità scientifiche e tecnologiche, l’uomo ha indubbiamente operato questo assurdo transfert. “- Se ho la possibilità di organizzare in laboratorio strutture biologiche viventi allora posso essere considerato creatore.” -Da qui il tragico equivoco di aver assunto un livello superiore per il quale viene superato e misconosciuto definitivamente il vero Creatore.
Questo blasfemo scambio non ha certamente inaugurato un tempo di serenità e di gratificazione. Piuttosto un tempo di inquietudine e disperazione. Allora, la preghiera “… perché Dio esista” dovrà essere davvero la preghiera di tutti quelli che non credono, e non solo di Caproni.
Sul piano psicopatologico e psicodinamico la percezione di un sentimento umano di onnipotenza ha invaso come un fiume in piena il Super-Io di ciascuno di noi rendendolo ipertrofico, straripante, invadente, presuntuoso. Cosicché, l’ambizione di un perfezionismo esasperato, la fede assoluta nelle proprie capacità, rimandano direttamente alla possibilità di fare a meno dell’alterità, soprattutto quando essa potrebbe identificarsi in Dio. La visione della vita integra in tal modo un’ottica estetica ed etica nella sua più rigorosa ed intransigente espressione.
Non possono esistere curve nel sentiero della vita tali da rendere imponderabile il futuro, ma solo linee rette che ne svelino in modo preciso e in lontananza ciò che si programma. Né possono esistere fallimenti di alcun genere o semplici contrarietà. La dimensione del dolore è esorcizzata o negata. Il termine sconfitta viene abolito dal dizionario dell’esistenza umana.
Si giunge così alla più totale intolleranza alle frustrazioni. Il rifugio è il web dove si è sempre connessi, dove abbondano gli “I like”, dove la ricostruzione e la narrazione del proprio esistere obbedisce a quel sentimento di onnipotenza che rende l’uomo vincitore su tutto. È smarrito definitivamente il senso della fragilità, del sacrificio, del limite: attributi di quel “Noi” che, malgrado tutto, anticipa l’Io contaminato dal suo insensato narcisismo.
All’interno di queste dinamiche profonde matura il disturbo ossessivo-compulsivo o fobico-ossessivo, espressione dell’ansia e della paura di perdere il controllo su tutto, di essere bersaglio di un imprevisto evento avverso, di non riuscire a dominare una propria pulsione. La realtà, invece, impone spesso queste condizioni, che in una dimensione umana non sono evitabili. Insorge allora lo sconforto, il sentimento cocente di inadeguatezza, la scoperta dei propri limiti fino ad allora sconfessati. Si creano così tutti gli aspetti sintomatologici di una depressione clinica, un crinale oscuro ed incerto che giunge ad insinuare l’inutilità del vivere quotidiano.
A fronte di queste dinamiche il recupero di un sentimento religioso, il ritorno ad un Dio che offre una riconsiderazione dei percorsi umani accidentati e dolorosi, rappresenta la possibile via d’uscita dalla disperazione esistenziale.