15 Ott 2024

La festa dei nonni

Lettera di un nonno al proprio nipote

Lettera di un nonno al proprio nipote (prima parte)

La festa dei nonni non è nata per caso, per aggiungere alle tante ricorrenze, alcune dannatamente importate, un’ennesima occasione di pranzi, cene o auguri di circostanza.

La festa dei nonni esprime il bisogno di valorizzare queste figure perché portatrici di esperienza, di tenerezza, di valori antichi. Ma forse per una cosa ben più importante: rappresentano la nostra storia, le nostre radici, il nostro ricco patrimonio di affetti.

Nell’esprimere il nostro passato i nonni proiettano una luce sul nostro futuro che sarà bello in misura in cui saranno proprio essi a illuminarlo.

Nel dicembre del 2022 ho pensato di scrivere da nonno a degli ideali nipoti ciò che mi pareva dovessi trasmettere loro, immaginando che qualcuno potesse raccogliere questo messaggio nato tutto dal cuore.

Isernia, Natale 2022

Mio caro nipote,

nel momento in cui mi accingo a scriverti questa lettera mi rendo conto di vedere e considerare in te tutti i nipoti del mondo, come anche in me, del resto, sento rivivere tutti i nonni del mondo. E trovo profondamente importante, oggi più di ieri, che i nonni costruiscano uno spazio dialogante con i nipoti, per il semplice fatto che nell’avvicendamento generazionale molte cose di ciò che sono le radici, l’orizzonte di provenienza, la propria storia, sono inevitabilmente ed irrimediabilmente destinate a perdersi.

È dunque per me un debito, una incombenza da assolvere nei tuoi confronti, prima che sopraggiunga il tramonto della vita e i pensieri offuscandosi possano far naufragare per sempre la mente, e con essa le ricchezze ideali del passato, con il loro carico emozionale, che avevo conservate per te.

Sono intanto molto preoccupato che la comunicazione oggi stia divenendo qualcosa di incomprensibile e di pericoloso, almeno ai miei occhi. Mi accorgo che essa tende a sopprimere la fisicità degli incontri, a costruire nuove sintassi, e in maniera insidiosa a delegare in forma quasi esclusiva all’etere la trasmissione dei saperi. I rischi sono enormi. La realtà virtuale viene deteriorata e mistificata da assiomi falsi, da concezioni ambivalenti, da strambe teorie in perfetta assonanza con vacillanti illusioni. Viene anche spogliata da tensioni emotive congrue, da sentimenti ed empatia. Molte cose davvero importanti si perdono così nei fondali non più esplorabili della memoria e i messaggi che giungono dal passato subiscono la sorte dei messaggi dell’attualità. Siamo al “mordi e fuggi” della comunicazione che non trattiene nulla dei ricordi e che guarda sempre avanti senza mai voltarsi indietro. Smemorati e ansiosi, depressi e smaniosi come siamo. Così si finisce con il perdere irrimediabilmente quel passato, quelle radici che sole ci possano consentire di costruire efficacemente e correttamente il futuro.

Ed è per questo che sento di voler lasciare a te con questa mia lettera un’eredità non di beni materiali che si usurano nel tempo ma qualcosa di mio, del mio passato, del bagaglio ideale di cui sono stato dotato dai miei genitori e dai miei nonni, di tutto quello che ti può servire per conoscere le tue radici, la storia personale da cui tu discendi e che di certo non troverai in nessun libro scolastico.

Anche i tuoi genitori tenteranno sicuramente di raccontarti qualcosa del passato. Ma forse non ne sanno molto, perché esiguo è stato lo spazio narrativo tra me e loro per una crescente ansia di costruire al meglio il loro presente e il tuo futuro. Loro, diciamoci la verità, sono un po’ travolti da questa atmosfera inquieta del tempo presente in cui si corre a gomitate per non restare indietro. Io invece ho spento da tempo questa ricerca smaniosa, si sono assopiti i desideri, e guardo indietro con la nostalgia di chi sa che quell’ombra del passato è decisamente molto più lunga di quel tratto che mi separa dalla fine.

Resto qui seduto sul mio vecchio divano di nappa consunto dal tempo e immagino di averti qui a fianco con lo sguardo che pende dalle mie labbra come per ascoltare una favola antica.

Caro nipote, dovrei dapprima parlarti dei miei genitori. Non dirò volutamente molte cose personali di loro. Schivi come erano, specie mia madre, non apprezzerebbero di essere celebrati da me nella loro testimonianza di amore e dedizione. Questi erano appunto i valori irrinunciabili del loro tempo, e la pratica di essi appariva in maniera così evidente e diffusa tra la gente del paese.

Eppure, di mio padre potrei dire tante cose, perché la sua fu veramente una vita avventurosa, sempre in cerca di lavoro. Da sarto a venditore di scarpe, da lavapiatti a guardia notturna, da fotografo a metalmeccanico, da guardia giurata presso un saponificio a commerciante di ciocie. (calzature dei pastori derivate dalle gomme in disuso delle auto). Sempre in giro per il mondo.

E di mia madre cosa potrei dire?  – Che è vissuta, quasi segregata, per ben sessanta anni in un paese in cui la donna godeva di poche occasioni per uscire di casa. L’unica per mia madre era la messa festiva. Poi le restava solo il lavoro della raccolta di ulive che la richiamava prepotentemente da quei sentieri aspromontani umidi e scoscesi. Il velo nero in testa per entrare in chiesa, il manto di lana nera per sfidare il freddo dell’inverno in montagna.

La ricordo sempre così, nella sua riservatezza e nella sua dignità nell’affrontare le circostanze dolorose, come quando perse il padre e la lasciò in casa all’età di soli ventitré anni. Poi, finalmente sposa, poté assaporare solo per poco tempo il bello dello stare insieme.

Ben presto mio padre iniziò il suo incessante girovagare. Solo quando arrivò il periodo romano i miei genitori finalmente si ricongiunsero, lui tornava dal suo esilio lavorativo, lei dal suo difficile isolamento calabrese, e poterono così godere di una breve fase di serena convivenza prima di andarsene per sempre. Io mi sono considerato spesso figlio di due guerre.

I miei genitori sono nati (mamma nel 1914, padre nel 1917) quando due schieramenti contrapposti di nazioni scatenarono la Prima guerra mondiale provocando qualcosa come sedici milioni di morti tra militari e civili. Tempi di terrore anche nelle piccole realtà rurali come era il mio paese di origine. Padri di famiglia costretti a partire per il fronte con nessuna certezza di ritornare sani e salvi. Qualcuno riuscì a dissertare la leva e riparare nelle fitte boscaglie aspromontane. Ma quanti ne mancarono all’appello dopo l’armistizio del novembre 1918.

Nella Seconda guerra mondiale, tra il 1939 ed il 1945, mio padre partì alle armi e quasi subito, da Tortona dove si trovava, fu deportato in un campo di concentramento minore in Germania. Esattamente a Troisdorf. Fu dichiarato disperso e in paese ovviamente ne sospettavano la morte. Ma fece ritorno a casa inaspettatamente alla fine delle ostilità belliche con mezzi di fortuna. Era appunto il 1945. Senza indugiare chiese in sposa mia madre che ormai credeva di restare definitivamente nubile. E così nello stesso anno furono celebrate le nozze in quell’atmosfera triste e povera di un paese tutto da ricostruire.

Formare una famiglia e sostenerla adeguatamente non fu davvero agevole, se non per quel tanto di solidarietà così radicato nella gente del mio paese. Ci si scambiava di tutto. Si faceva il pane in casa e lo si prestava caldo e profumato ai vicini per esserne poi ricambiati. Come fare il pane in una simbolica turnazione per garantirsi freschezza, ma anche talvolta per sopperire a temporanee indigenze. E tante altre cose entravano nel ciclo della generosità e dell’aiuto reciproco. Pochezze, come le uova o mezza forma di formaggio, o ancora un mazzo di cicorie di campo. E di tutto questo non si mancava di ringraziare il buon Dio e la divina Provvidenza.

Quel superfluo che oggi abbonda non c’era. Intendo dolci, alimenti raffinati e spesso anche frutta. Ricordo ancora il libretto dalla copertina nera. Conteneva la lista delle spese a credito. Non c’erano ovviamente biscottini, caramelle, frutta o mortadella. Solo generi di sopravvivenza, la pasta, lo zucchero, il sale e la conserva venduta sfusa, quel tanto che bastava a colorare la pasta di rosso.

Quella lista sarebbe stata onorata a fine mese, spesso solo parzialmente. A tanta povertà corrispondeva tanta serenità, tanta dignità, ed un diffuso sentimento di fratellanza. Il pane e l’olio non passavano certamente dagli scaffali dei pochi negozi di alimentari. Essi erano il frutto della terra che giungeva dritto sulla tavola e pareva che oltre non mancasse nulla. Di questa povera ed umile elargizione non si poteva non ringraziare ancora una volta il Signore.

Per le sventure poi non restavano che due risorse: il pianto e la fede, e con la fede una rassegnazione che sembrava incrollabile, granitica, stampata su quei volti precocemente disfatti dal tempo. Molti non erano mai usciti dal paese. Per loro il mondo quasi non esisteva, si fermava là dove le case cedevano il passo alla vegetazione arsa dal sole della lunga estate. Avrebbero potuto almeno osservarlo timidamente dallo schermo di un televisore. Ma non esisteva neppure quello. In quell’anfratto aspromontano non riuscivano a penetrare nemmeno le onde radio. Solo molto più tardi fu realizzato un rudimentale trasmettitore.

Insomma, le storie, tante storie che vi si consumavano morivano con i protagonisti in quelle serate ventose che si concludevano alla fine lungo il sentiero per il cimitero. Altre storie seguivano percorsi diversi che si chiamavano America e Australia. Queste sì storie tragiche, perché si partiva di notte tra pianti e disperazione con l’assoluta certezza di non poter tornare mai più indietro. Anche in questo caso era come morire. Per tanti altri del paese si era persa perfino quella voglia di riscatto, perché il loro futuro si era irrimediabilmente cristallizzato su quelle pietre che la fiumara trascinava a valle, su quegli oleandri gelosi che sbarravano la strada ad ogni tentativo di fuga. Il tempo scandiva svogliatamente le ore e i minuti. Era così per tanti paesi, per tutto il sud, forse dappertutto, in quel dopoguerra che ora esigeva uno scatto di rivincita morale ed economica.

Quando sono venuto al mondo mi sono trovato davanti un padre, una madre, una nonna, un fratello che mi aveva preceduto ed una cugina poco più che adolescente. Ho appreso da subito che la famiglia normale poteva e forse doveva essere inevitabilmente composita. La presenza dei genitori era scontata, ma non troppo se considero che mio padre era già destinato a rimanere un eterno emigrante. Tuttavia, ho vissuto sempre con l’idea che lui fosse sempre presente perché sentivo che c’era anche quando non era visibile fisicamente al mio sguardo. La nonna era rimasta vedova da più di un decennio e mia madre assolutamente l’aveva tenuta con sé con grande soddisfazione di mio padre. Anzi, tra suocera e genero si era stabilito un legame così forte da trasparire evidente in ogni circostanza.

Non per nulla quando la nonna morì mio padre, allora lontano da casa, ebbe un segno: sentì nella sua stanza appena sveglio come se qualcuno avesse accartocciato un foglio di carta, metafora della morte. Fu lui a raccontarmi in seguito questa circostanza.

Anche la morte di mia madre, del resto, fu prodiga di segnali che ne presagivano il distacco. Avvenne in una corsia di ospedale. Di là dal vetro mio padre era mutacico, avvolto nei suoi pensieri, dignitoso e immobile fino a quel bip che gli annunciava la fine. Da lì in poi mio padre invocò di continuo la morte. Ma dovette aspettare quattro lunghi anni in una condizione di reclamata autonomia, perché non voleva assolutamente che la sua solitudine esistenziale potesse coinvolgere emotivamente la serenità dei figli.

Lui non scelse soltanto un mese invernale per andarsene, ma addirittura lo fece nel bel mezzo dell’atmosfera natalizia. Si addormentò per sempre l’antivigilia di Natale su un letto di ospedale senza farsi accorgere da alcuno. Stile di grande riservatezza e dignità. E così, mentre il mondo in stile laico e dissacratorio si preparava al tradizionale cenone lui raggiungeva il suo posto nel loculo accanto a mia madre forse per festeggiare con lei finalmente il suo vero, autentico Natale. Meritava un applauso. E lo ebbe proprio mentre un muratore del cimitero lanciava con la cazzuola l’impasto di cemento verso l’ultima fessura che lo esponeva al mondo.

Ho scritto prima che alla mia nascita, oltre i genitori, la nonna e un fratello ho trovato in casa una cugina. Certo non mi ero posto il problema chi fosse per me. L’ho vissuta come una sorella maggiore e quindi come un componente della famiglia a tutti gli effetti. Non era necessario sapere altro. Era un po’ irrequieta e talvolta anche un po’ ribelle. Non so in quale momento della mia crescita mi è stato spiegato che in realtà lei era rimasta orfana di madre ed era stata affidata in un primo tempo ad una zia materna che viveva in Francia. Da lì, respinta dopo alcuni anni, i miei genitori appena sposati la presero con sé, prima ancora che avessero un figlio. Il padre, fratello di mia madre, non era in condizione di sostenerla. Le sue manifestazioni comportamentali erano state interpretate dalla zia come l’effetto di tratti caratteriali negativi. E questa convinzione fu il vero motivo del suo allontanamento.

I miei genitori e particolarmente la nonna superarono in questa circostanza ogni pregiudizio e l’accolsero in casa come fosse la prima figlia di altri cinque che sarebbero arrivati dopo, tutti maschi. Forse avevano intuito bene che perdere una mamma è una delle più gravi e insostenibili sofferenze. Lei, questa bambina, aveva visto morire sua madre all’età di sei anni. Nella sua mente questo evento aveva inevitabilmente assunto il significato di un abbandono, un torto subìto, un’aggressione ai suoi innocenti e irriducibili bisogni. Era giustificata una reazione di rabbia, un’esplosione di rancore verso tutti, verso il mondo, verso la vita. Aveva perso il suo contenitore per la seconda volta. La prima volta le era rimasta almeno la superstite possibilità di continuare a possederlo in una condizione esistenziale di reciprocità. Ma adesso, con la sua morte, era sparita anche questa. Con la mamma era scomparsa per sempre una parte di sé.

Una ferita, una menomazione insanabile. Il rifiuto successivo della zia, sostituta della madre, aveva avuto in lei il senso di una ulteriore perdita, l’approfondimento di una ferita ancora aperta e sanguinante. L’accoglienza nella mia nascente famiglia poteva costituire dunque per lei l’atto riparativo che avrebbe evitato un suo pericoloso e definitivo naufragio.

Continua…

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Domenico Barbaro

Domenico Barbaro

Di origine calabrese, sono nato a Platì (RC), un paese arroccato alle estreme propaggini dell’Aspromonte volte verso la costa ionica. Dopo aver fatto gli studi superiori mi sono trasferito a Roma dove ho conseguito la laurea in Medicina e Chirurgia presso l’Università “La sapienza”.